FOTOGRAFIE E RIFLESSIONI
Stefano Tettamanti – Agente letterario
“Una cosa che so è come si fanno le grette. Non so come si chiamano nel resto del mondo. Da noi, qui alla Foce, si chiamano grette.” – Stefano Tettamanti.
Ed è proprio alla Foce, in piazza Rossetti, che ci siamo incontrati con Stefano Tettamanti, agente letterario, traduttore e scrittore; ospite della nostra rubrica di foto-interviste, per raccontare delle sue esperienze, del suo bellissimo mestiere e condividere con noi alcune riflessioni sul mondo dei libri e sul nostro tempo.
Stefano, il testo citato, estrapolato dal tuo libriccino Cose che so, permette di intuire le motivazioni che rendono questa piazza a te particolarmente cara. Luogo d’infanzia, di crescita, ma anche un tuo punto di riferimento continuo. Vuoi raccontarci qualche aneddoto che ci restituisca il valore del legame che hai con questo posto?
Piazza Rossetti dev’essere il posto sulla terra (anzi sul pianeta come si ama dire oggi) dove ho trascorso più tempo della mia vita. Dai quattro ai quattordici anni non c’è stato pomeriggio, esclusi quelli d’estate, quando si andava in campagna, che non abbia passato qui, fra le braccia della zia, la zia piazza, come la chiamavamo allora. Prima il triciclo, poi i pattini a rotelle, la bici e quindi naturalmente il pallone. La difesa del Superflex dagli aghi da maglia delle mamme spietate che non avevano figli in campo e dai sequestri dei baffi (i vigili, no? come li chiamate adesso? sempre baffi, mi auguro) mi ha fatto imparare i fondamentali della tecnica calcistica. E la zia mi ha forgiato anche al rapporto con la natura: ho negli occhi l’immagine di mia madre che si alza dalla panchina e corre verso di me che ho quattro anni per impedirmi di abbeverarmi alla putrida fontana della piazza (un po’ avventato in effetti, ma avevo una buona ragione: rifacevo John Wayne nel Fiume Rosso, appena visto all’Aurora di via Cecchi), un paio di giorni dopo ero a letto con 42 di febbre e una diagnosi poco tranquillizzante: tifo addominale. In un’altra panchina di piazza Rossetti c’è stato il mio primo incontro con l’arte e la celebrità: mi rivedo in un gruppo di babanetti di cinque o sei anni assembrati intorno a un sorridente signore con i capelli bianchi, Gilberto Govi, che evidentemente aveva scelto la zia per un servizio fotografico del settimanale “Epoca”. Potrei non amare questa piazza? Ma è a tutta la Foce che sono affezionato (e che considero la zona di gran lunga più bella della città), alle scuole che ho frequentato, la Barrili di piazza Palermo, la Pascoli di via Cesare Battisti, il D’Oria, ai cinema dove ho visto solo capolavori indimenticabili, l’Elios di via Trento, l’Italia di piazza Tommaseo, il Pittaluga di corso Buenos Aires, alle vie dove ho giocato a cannette e corso i giri d’Italia con le grette, via Cocito, salita Vignola, via Nizza… Be’ basta così, altrimenti mi commuovo. E grazie di avermi fatto tornare in piazza Rossetti, era un po’ che mancavo.
Una vita vissuta in mezzo ai libri e per i libri: dal periodo di formazione, all’attività di libraio, al lavoro in gloriose case editrici genovesi come la Marietti e la Costa&Nolan, fino ad arrivare, nei primi anni Novanta, ad aprire una tua agenzia letteraria assieme a Laura Grandi. Nel mentre anche autore e traduttore. Cosa ha alimentato la tua passione in tutti questi anni?
Ho scritto la prima lettera a un autore a 12 anni, incoraggiato da mio fratello Walter, figura centrale nella mia vita, chiedevo notizie a Mino Milani sulla serie di Tommy River, e la risposta di Milani sulla carta intestata del “Corriere dei Piccoli” è uno dei cimeli letterari più cari che ho. Chissà che quel primo contatto diretto con uno scrittore non abbia indirizzato la scelta di occuparmi professionalmente di loro. E comunque ad alimentare la passione per la lettura (non tanto per i libri come oggetti fisici verso i quali non ho particolari inclinazioni feticistiche, pur considerandoli, come Umberto Eco, strumenti perfetti, al pari di forbici e cucchiaio) è stata la convinzione, alimentata dall’esperienza, che non ci sia piacere più alto di quello che può darti leggere. Alto ma anche solitario, faticoso, a volte ingrato. Il lavoro nell’editoria mi ha permesso di non chiudermi nella dimensione dello studioso o del sognatore ma di aprirmi al mondo reale, di misurare e controllare la mia passione con i numeri, le copie vendute, le copie rese, i fatturati. Con la conseguenza di avermi fatto ignorare la distinzione fra tempo del lavoro e tempo libero, una delle dolcissime condanne del mio mestiere.
Come valuti l’attuale panorama editoriale italiano e come lo trovi cambiato dai tuoi inizi?
Mi chiedi una valutazione sul panorama editoriale italiano di oggi: be’ non potrebbe essere più positiva, almeno dal punto di vista dell’agente letterario, il quale non ha mai avuto tanti interlocutori editoriali come ha oggi. Dopo l’acquisto del gruppo numero due (Rizzoli) da parte del gruppo numero uno (Mondadori) in molti profetizzavano l’instaurarsi di un monopolio mortifero, in realtà le case editrici di medie e grandi dimensioni si sono moltiplicate (qualche nome? il gruppo Giunti-Bompiani, il gruppo Nave di Teseo-Baldini+Castoldi, Solferino, HarperCollins, si sono rafforzati il gruppo Feltrinelli con Marsilio e Crocetti, il gruppo Gems e De Agostini con Utet, hanno consolidato le loro posizioni orgogliosi indipendenti come e/o, Sellerio, Neri Pozza, il Saggiatore, sono cresciuti piccoli ben strutturati come Sem, Aboca, Bao…) e noi agenti ci freghiamo le mani perché abbiamo più acquirenti cui proporre la nostra merce. Ma i cambiamenti più profondi rispetto all’età della pietra in cui ho cominciato io vanno registrati sul piano tecnologico, sia dal punto di vista del processo creativo e produttivo (ricordo senza neppure un briciolo di rimpianto l’epoca in cui tutti noi viaggiavamo con vagonate di manoscritti di carta che demolivano le nostre cervicali) sia soprattutto della distribuzione e commercializzazione dei libri e dei loro meravigliosi succedanei (ebook e audiolibri per esempio). Oggi si vendono in termini assoluti più libri nel canale e-commerce di quanti se ne vendano in qualsiasi altro canale (librerie indipendenti, librerie di catena, grande distribuzione). È una rivoluzione e le rivoluzioni, come diceva il presidente Mao, non sono pranzi di gala e al massimo lasciano aperte le porte solo alla nostalgia di chi, prima della rivoluzione, banchettava ai danni degli altri. Va detto comunque che i librai indipendenti si stanno battendo come leoni e con una grande creatività per difendere le loro riserve, lasciando forse più nelle pesti le grandi librerie di catena con i loro costi di gestione elevati.
Può sembrare una domanda banale, ma voglio comunque porterla: di cosa si occupa (e di cosa non si occupa) un agente letterario?
Domanda per niente banale, alla quale faticherebbero a rispondere tanti che oggi si definiscono agenti. Del resto il mestiere dell’agente in Italia fino a non troppi anni fa era conosciuto solo da pochi addetti ai lavori. Quando ho cominciato io pochi scrittori italiani avevano l’agente e quei pochi avevano Erich Linder, un ebreo svizzero dalla cultura sterminata. Oggi se vuoi essere preso sul serio (e se vuoi prenderti sul serio) uno straccio di agente non puoi non averlo. La risposta alla tua domanda l’ho imparata da Linder: un agente letterario fa contratti. Per conto degli scrittori che rappresenta e con chiunque intenda sfruttare l’opera del loro ingegno, editori italiani e stranieri, produttori cinetelevisivi, produttori di audiolibri, di podcast, agenzie di comunicazione… Contratti, niente di più e niente di meno. In una straordinaria intervista nell’anno di grazia 1968 alla Fiera Letteraria di Manlio Cancogni, Linder spiegava anche le ragioni per cui aveva deciso di fare l’agente: “Perché sono un puritano. Odio l’ingiustizia, i soprusi. E credo che l’autore sia vittima dell’editore. Il mio scopo è difenderne gli interessi. (…) lo scrittore in Italia è sfruttato, strumentalizzato, dall’editore. (…) oggettivamente i contratti che legano lo scrittore all’editore sono tutti a vantaggio del secondo, vessatori”. Tanta acqua dal 1968 è passata sotto i ponti e i rapporti fra editori e autori sono cambiati. Ma ingiustizie, soprusi e vessazioni continuano a esistere, specie fra editori piccoli, piccolissimi e microscopici. Chiunque faccia oggi il mestiere di Erich Linder dovrebbe avere sempre presente il suo unico compito: difendere gli interessi degli autori. Mi ha sempre colpito un dato: per ogni libro venduto, al libraio va circa il 35% del prezzo di copertina, all’editore che l’ha pubblicato diciamo un altro 30%, a chi quella copia trasporta avanti e indré per la lunga Italia circa il 20%, a chi la custodisce negli scaffali del magazzino più o meno l’8% e il resto, un ricco 7%, va a chi quel libro lo ha scritto. Non è paradossale che chi scrive un libro sia quello che guadagna meno dalla sua vendita? Poi, fra un contratto e l’altro, l’agente si occupa della cura dei suoi autori, e qui bisogna saper fare ricorso a tutte le competenze: dal mental coach al tour operator, dal confessore al personal shopper, dallo chaperon allo chaffeur, dal consulente d’immagine al trucco&parrucco. Scherzo naturalmente, ma è vero che gli scrittori, come tutti gli artisti, sono esseri fragili e hanno bisogno di sostegno continuo per dare il meglio di sé: c’è una serie francese su Neflix che racconta bene il mestiere dell’agente (in quel caso dell’agente cinematografico), si intitola Chiami il mio agente, vale la pena vederla.
Quanto è stato importante il tuo passato da libraio e quanto ti ha aiutato nelle altre tue attività editoriali?
È stato fondamentale. Le migliaia di scatole aperte. I titoli che acchiappano, le copertine che funzionano, i generi che tirano. Gli autori che vendono e quelli che ormai sono bolliti. La sostanziale differenza fra sell-in e sell-out, parametro per ogni discussione seria sui libri. Il corretto posizionamento dei titoli, sui banchi e nelle vetrine. Le presentazioni con gli autori. Le chiacchiere con i lettori. I tanti risvolti di copertina digeriti. La caporetto delle rese. Conoscere direttamente, dall’alto del suo ultimo gradino, la filiera dell’editoria libraria mi ha permesso di essere quello che ad ogni tavolo di riunione successivo ne sapeva più di tutti. O magari quello che fingeva di saperne di più. Poi, nelle case editrici, sui commerciali e sugli editoriali hanno preso il sopravvento gli uomini e le donne del marketing, gente in gamba, che quasi mai ha letto un libro in vita sua e che quindi è più libero di esprimere creativamente la sua conoscenza del mercato. Ma tornando al libraio di una volta, e parlo a ragion veduta perché io ero così, non si può negare che fosse un personaggio piuttosto insopportabile, spocchioso e invadente, convinto, solo perché spostava tanti libri, di conoscere tutto di quei libri e di saper consigliare al meglio qualsiasi cliente. Ammetto che come consigliere preferisco un algoritmo qualsiasi: anche l’algoritmo più sofisticato puoi riuscire a fregarlo, basta dargli le informazioni sbagliate, mentre il libraio di una volta riusciva sempre a rifilarti quello che voleva lui.
L’agenzia Grandi&Associati ha avuto negli anni una crescita importante, può vantare di essere una delle più antiche d’Italia ed è diventata un punto di riferimento per molti autori. Nel corso del tempo, alla sua guida, si sono unite Maria Paola Romeo, socia dal 2007, e più recentemente Maria Cristina Guerra, Alice Fornasetti e Luisa Rovetta. Vuoi parlarci dei vostri progetti più recenti e novità?
Aver contribuito a pilotare la nostra agenzia in tanti anni di mare editoriale perennemente agitato è un orgoglio, una soddisfazione impagabile. (E impagata. Infatti tutti noi che lavoriamo in editoria all’inizio dei nostri percorsi prestiamo un giuramento solenne e gioioso davanti alla tomba di Gutenberg: pur di “lavorare nei libri” accettiamo di guadagnare la metà di quanto guadagneremmo facendo un qualsiasi altro mestiere). La Grandi&Associati è stata dalla sua nascita un’agenzia letteraria particolare che al lavoro tradizionale di rappresentanza degli autori ha affiancato una serie di servizi all’editoria che vanno dall’ufficio stampa allo scouting, dal lettorato agli editing, alle traduzioni e alle revisioni di traduzioni, dai lavori redazionali al ghost writing, dalle consulenze commerciali a quelle organizzative. Abbiamo potuto farlo perché le nostre esperienze precedenti all’agenzia ce lo permettevano (Laura ha diretto l’ufficio contratti della Mondadori, Maria Paola è stata editor e direttrice editoriale di grandi case editrici, io in editoria ho fatto la qualunque) e perché questo ci dava modo di intrattenere con le case editrici e gli stessi autori rapporti più articolati, profondi e proficui. Con l’ingresso in società di Alice abbiamo messo un piede autorevole, anzi due, nel mondo dei libri e dei progetti editoriali per ragazzi, uno dei settori in espansione nella nostra editoria. Maria Cristina, agente dal grande fiuto e dalla grande determinazione, ha potenziato e diversificato la nostra presenza fra gli autori italiani, Luisa quella fra i nostri clienti stranieri, case editrici e agenzie letterarie di tutto il mondo che rappresentiamo in Italia. A completare una squadra tutta al femminile (questo il mio orgoglio più grande) ci sono un pugno di collaboratrici preparate, esperte, propositive e affidabili: Mara Franchini, la donna dei numeri, Anna Borrelli, la donna dei contratti, Elena Tafuni, la donna del cinema e Beatrice D’Anna, la donna del diritto d’autore. Non mi permetto di dire come sarà la Grandi&Associati del futuro, anzi sì, mi permetto: sarà la Grandi&Associati che decideranno loro.
Tra i nostri lettori, amici e affezionati, ci sono numerosi aspiranti scrittori, spesso disorientati nell’approcciare il mondo dell’editoria, nella speranza di vedere il proprio libro pubblicato. Quali consigli ti senti di dare loro e quali sono gli errori che vengono maggiormente commessi dagli autori neofiti in questo percorso?
Quando trent’anni fa cominciammo, primi in Italia, a proporre agli aspiranti scrittori un servizio di valutazione a pagamento (un piccolo pagamento) qualcuno si scandalizzò: ma come, pagare per farmi leggere? Non sia mai. Oggi tutti lo accettano, avendo capito che il parere e il tempo di professionisti della lettura non possono essere gratuiti. Il nostro gruppo di lettori, formato da scrittori, editor, docenti, critici letterari, è coordinato da un collaboratore storico dell’agenzia Carlo Braga (inediti@grandieassociati.it), uomo dalla profonda cultura e dall’ancor più profonda sensibilità che dopo tanti anni (e tanti talenti scovati) continua ad avere un’empatia profonda con chi gli si rivolge per provare a capire se quello che ha scritto possa aspirare a trovare una via decorosa di pubblicazione. Il consiglio dunque non può che essere quello di rivolgersi a noi con fiducia per farsi leggere e valutare, e al tempo stesso di diffidare di chiunque chieda loro dei soldi per farsi pubblicare.
Cibo e letteratura sono un binomio del quale ti piace sicuramente parlare, dimostrazione è che ne hai fatto argomento di sei o sette libri. Hai piacere di raccontarci qualcosa di più? Nella quotidianità, ti cimenti in cucina oppure sei più da cavallo di battaglia per le occasioni speciali e per stupire gli amici?
Sì, cibo e letteratura sono due passioni vere e scriverne, sempre insieme a Laura, è stato tributare loro un omaggio dovuto e piacevolissimo. Leggere e mangiare sono fra le cose belle della vita e condividerle è ancora più bello. Quando abbiamo cominciato a scrivere i nostri libri ci siamo accorti che non esiste grande romanzo che non contenga almeno una pagina dedicata alla cucina (e poco importa che le contengano anche romanzi molto meno grandi). Se abbiamo continuato a scriverli è stato perché ai lettori piacevano e perché un amico e uno scrittore speciale, Gianni Mura, ci “costringeva” con il suo affetto, la sua attenzione e i suoi consigli a farlo. Sui miei talenti ai fornelli: forse qualcuno ce l’ho (nonni e genitori sono stati ristoratori) ma di sicuro ho più talento a tavola. So mangiare benissimo.
De André è stata una figura gigantesca nel panorama del cantautorato italiano, un artista che non ha bisogno di presentazioni, né per la sua musica né per il suo impegno politico e sociale. Tu hai avuto l’opportunità di lavorare con Fabrizio, puoi raccontarci qualcosa di quell’esperienza? Com’è stato il vostro primo incontro?
Ci siamo occupati del contratto con Einaudi per l’unico romanzo che Fabrizio abbia scritto, in tandem con Alessandro Gennari, il meraviglioso Un destino ridicolo e di quello per il film, molto meno meraviglioso, che anni dopo venne tratto dal libro. In tutto una collaborazione che è durata poco meno di cinque anni. Del periodo della scrittura del libro ricordo due particolari: le parole di (finto) disprezzo per noi del mondo editoriale (“Siete proprio degli straccioni…”) quando gli comunicai tutto orgoglioso l’importo dell’anticipo che avevamo strappato all’Einaudi (per i nostri parametri per niente disprezzabile, anzi) e le parole di (vero) stupore quando era nel pieno della stesura del romanzo: “Belin, qui non fanno che aprirsi porte e finestre, mi perdo continuamente, è un vero casino, altro che scrivere una canzone”. È stata l’unica persona che ho conosciuto che mi abbia messo in soggezione: per me era un mito vivente da quando avevo tredici anni e giravo con in tasca il suo numero di telefono e non avevo mai il coraggio di chiamarlo. Il primo incontro con quella voce e quello sguardo avvenne nello studio di registrazione dove stava lavorando a Anime salve e più che un incontro fu un check-up sulla mia genovesità: “Non sarai mica doriano, eh?”, “Un vero genovese ha sempre indosso qualcosa di blu”, “Pronuncia prescinsêua”, “Come si dice pergolato in genovese?”. Sono genoano, avevo indosso un maglione blu genova che più blu non si può, pronunciai alla perfezione prescinsêua. Non avevo idea di come si dicesse pergolato (angiòu, ora lo so e chi se lo dimentica più?) ma fui promosso lo stesso, probabilmente perché seppi motivare con efficacia la mia devozione nei confronti del professor Scoglio. Ai funerali in Carignano fui orgoglioso di aver lavorato per tanti anni ed essere amico del sacerdote che celebrava il funerale, il professor Balletto. Le parole che pronunciò furono un sollievo vero per tutti quelli che affollavano la chiesa, “invochiamo per te di poter correre nei pascoli del cielo…”
Chiedo sempre di portare con sé uno o più oggetti ai quali si è particolarmente legati, tu hai portato una pipa e una penna stilografica, ce ne vuoi spiegare la motivazione?
La pipa non è una pipa (come direbbe Magritte) ma una Castello fiammata, opera d’arte portatile più che strumento per fumare. E la stilografica non è una semplice penna ma è una Pelikan M120 verde/nera, copia fedele, riprodotta in pochi esemplari dalla casa tedesca, di quella che usavo in quinta elementare che ho scovato nella mitica Casa della penna di Napoli e che mi ha fatto ritrovare il piacere di scrivere a mano. Oggetti perfetti. Piccoli e perfetti. Come il tempietto di Atena Nike sull’acropoli di Atene, il mio monumento preferito. Ma quello non potevo portarlo in piazza Rossetti.
Il fil rouge che lega le mie foto-interviste, nonché i ritratti del mio progetto #iltuoritrattoinunlibro, dove scrittori, editori, agenti, lettori vengono democraticamente accomunati nella stessa categoria dalla loro condivisa passione per la lettura, è il libro del cuore. Chiedere a una persona della tua esperienza e cultura di eleggere un libro su tutti è davvero proporre una sfida improbabile, ma tu sei comunque stato al gioco e hai portato con te Odissea di Nikos Kazantzakis, vuoi parlarci del libro e della scelta?
Sì, eleggere un solo libro è contronatura. Così quando mi hai lanciato la provocazione ho deciso di rispondere scegliendo a caso fra quelli che avevo in lettura in quel momento. Mi è sembrato l’unico criterio che avesse un minimo di senso. San Tommaso diceva non a caso: “Guardati dall’uomo di un solo libro”. E fra quelli in lettura avrei potuto scegliere Il turno di Grace (Nutrimenti) dello scrittore irlandese-camoglino William Wall o Il silenzio (Einaudi) di Don DeLillo o Io e Mr. Wilder di Jonathan Coe o Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling (Settecolori) di Peter Hopkirk o ancora L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo) di Giulio Ferroni. Alla fine ho scelto Odissea (Crocetti) perché è un testo davvero straordinario, una sorta di sequel fantastico del poema omerico che il cretese Nikos Kazantzakis (è l’autore di Zorba il greco e dell’Ultima tentazione per intenderci) impiegò quattordici anni a scrivere riversando nei 33.333 versi che lo compongono tutto il suo sapere, culturale, esistenziale e linguistico e dando vita a un’opera-monumento che ti godi come il più scorrevole e appassionante dei romanzi. A tradurlo in italiano dal greco è stato il benemerito editore di poesia Nicola Crocetti. Anche la sua è stata un’impresa ciclopica che merita di essere ammirata e celebrata.
Fra le diverse traduzioni che hai curato, ce n’è una in particolare della quale mi hai dichiarato di essere particolarmente orgoglioso, A tutti gli interessati di Raymond Federman. Lavoro per altro svolto a quattro mani, con una partner speciale, tua moglie Patrizia Traverso. Vuoi raccontarci qualcosa di più?
Sì, anche al libro di Federman sono particolarmente legato. E anche quello avrei potuto portare con me in piazza Rossetti. È un testo superbo, di un autore poco conosciuto ma che non esito a inserire fra i grandi del Novecento. A tutti gli interessati uscì nella nostra traduzione ventisei anni fa, da Marsilio. Accompagnammo Federman negli incontri con la stampa che seguiva il lancio del suo libro in Italia e a riguardare oggi i ritagli dei giornali di allora si rimane stupefatti dalla mole e dal livello di presentazioni, recensioni e interviste che gli vennero dedicate: Antonella Fiori sull’Unità, Masolino d’Amico su Tuttolibri, Fernanda Pivano sul Corriere della Sera, Livia Manera sulla Stampa, Enrico Fovanna sul Giorno, Giuseppe Campolieti sul Gazzettino, Alessandra Orsi sul Manifesto e tanti altri ancora, fra cui Alessandro Zaccuri su Avvenire, oggi autore di una preziosa introduzione nell’edizione che Einaudi ripropone. Il ricordo più vivido di quegli incontri ufficiali (e dei meno ufficiali pranzi, cene e aperitivi) è quello di uomo dalla gioia di vivere solare e dallo spirito critico esuberante e affilato, capace di sintesi fulminanti. Un uomo tanto brillante aveva alle spalle una storia dolorosa e buia. Nato nel 1928, nel 1942 i genitori e tutti i famigliari erano stati deportati ad Auschwitz e nessuno di loro aveva fatto ritorno. A proposito di A tutti gli interessati (è la storia, continuamente interrotta e rimandata, del reincontro in Israele di due cugini scampati miracolosamente allo sterminio nazista, una storia vera, la sua storia veramente accaduta, che Federman racconta come se la stesse inventando) il suo autore diceva: “Io non scrivo dell’Olocausto, scrivo della difficoltà di scrivere dell’Olocausto”. Una difficoltà dalla quale è nato un capolavoro. Oggi la nostra soddisfazione di traduttori è che gli editor e i redattori di Einaudi, notoriamente esigenti, non ci hanno chiesto di cambiare una parola rispetto all’edizione di Marsilio.
La collaborazione con tua moglie (Patrizia Traverso – foto narratrice qui il link all’intervista) non è stata episodica, anzi avete intrecciato le vostre esperienze e competenze anche in altre occasioni, come nei due libri illustrati Genova è mia moglie. La città di Fabrizio De André (Rizzoli) e Andar per statue (Il Canneto). Ma qual è il segreto del vostro feeling (professionale)? Avete altri progetti in cantiere?
Be’ se non avessimo feeling dopo quarant’anni di vita comune saremmo ben strani, non credi? Sì, è vero che in tanti mettono in guardia dal lavorare con il proprio coniuge prevedendo chissà quali sconquassi. Noi abbiamo lavorato insieme in diverse occasioni, quando abbiamo tradotto, quando abbiamo pubblicato i libri a due mani + due occhi, l’ho aiutata per alcuni suoi libri senza comparire (ora possiamo dirlo, le voci feline del suo bellissimo La parola ai gatti, Tea, sono mie), abbiamo condiviso le esperienze da librai quando Patrizia dirigeva la libreria Ducale a palazzo Ducale e le ho retto le borse con le macchine fotografiche nelle scarpinate per tanti suoi lavori in esterni. Nessun segreto dunque, solo il totale rispetto per le reciproche competenze e l’ammirazione sincera per i rispettivi risultati. Va bene, poi mettiamoci anche l’affetto infinito e l’allegria con cui seguiamo i nostri progetti. Fra quelli in cantiere ce n’è uno particolarmente ambizioso: proseguire il percorso avviato con Andar per statue in Liguria ampliandolo a tutta l’Europa e raccontando con le sue immagini e le mie parole le storie che stanno dietro ai monumenti dedicati alle personalità dell’arte, della scienza, della storia e della politica che hanno impersonato l’idea d’Europa, un’idea alla quale siamo entrambi strettamente legati. Da Mozart a Spinoza, da Virginia Woolf a Simone Weil, da Cervantes a Picasso, da Maria Montessori a Anne Frank, da Kafka ad Altiero Spinelli, da Simone de Beauvoir a Maria Callas. Sarebbe un tour entusiasmante ma per il momento e per ovvie ragioni abbiamo dovuto sospenderlo. Ma sono certo che riusciremo a riprenderlo.
Cose che so, che ho citato a inizio intervista, è una raccolta di varie tue riflessioni su alcune piccole/grandi consapevolezze che hai maturato nel corso della tua vita. Mi piace chiudere con un pensiero a questo testo per diverse ragioni. La prima è per ringraziarti della copia che mi hai donato, impreziosita da una dedica di cui andrò particolarmente fiero; la seconda è perché ci tengo a menzionare la libreria indipendente che ne ha curato l’edizione, L’amico ritrovato di Genova (https://www.amicoritrovato.it/), un luogo davvero speciale dove si respira l’amore e la passione per i libri. La terza è per darmi il pretesto di riportare integralmente le istruzioni su come si fanno le grette, perché la trovo una bellissima lezione di felicità, quella pura e ingenua che da adulti invidiamo tanto ai bambini e che dovremmo invece cercare di riscoprire nelle piccole cose di ogni giorno, soprattutto in questi periodi difficili.
Una cosa che so è come si fanno le grette. Non so come si chiamano nel resto del mondo. Da noi, qui alla Foce, si chiamano grette. I più esperti, quorum ego, le fanno così. Si svuota un tappo d’alluminio a corona – perfetti quelli del Campari soda – del suo polmoncino di sughero con canotta di plastica. Con un coltellino – ma vanno bene anche le unghie – si gratta bene dal fondo ogni eventuale traccia di sughero. La gretta nuda e lucida si imbottisce di stucco – preferibile alla colatura di cera di candela che, una volta raffreddata, risulta meno malleabile e ha un odore meno inebriante dello stucco – in quantità adeguata alle caratteristiche del corridore che si vuole ottenere: poco stucco per lo scalatore, medio per il passista, abbondante per il cronoman e il discesista. Si ritaglia delle pagine patinate del penultimo “Annabella” (o “Grazia”, dipende da quale periodo attraversa vostra madre, se filo-Brunella Gasperini o filo-Donna Letizia) un tondo del colore di fondo della maglia del ciclista desiderato e delle striscioline dei colori complementari ( ad esempio: fondo rosso e bordi bianchi per Rik Van Looy della Faema; fondo nero con righe verticali bianche per Italo Zilioli della Carpano; fondo verde per Imerio Massignan della Legnano). Sopra il tondo si incolla (con la coccoina, c’è bisogno di dire?) il nome e il numero di corsa del corridore ricavati dalla “Gazza”. Si fa aderire la maglia al corpo di sughero opportunamente bombato e si rifascia tutto con il cellophane leggero e trasparente di un pacchetto di sigarette (il migliore quello delle Kent). Si inserisce il corridorre tirato a lucido nel tappo con lo stucco e si rinfoderano bene i bordi con le forbicine (attenzione a non bucarli). La gretta è pronta.
Grazie per aver citato il mio piccolo Cose che so, ci tengo particolarmente. Il suo sottotitolo Libri, pesci combattenti, scaloppine al limone, ancora libri e poco altro e la sua foto di copertina (ovviamente di Patrizia) la dicono lunga sul cuore che batte nel libro. Si arriva a un’età in cui al principio socratico che ci accompagna da tutta la vita (tutto quello che l’uomo saggio sa è di non sapere) se ne affianca uno complementare (ci sono anche tante cose che l’uomo saggio non sapeva di sapere). Io per evitare di dimenticarmele ho pensato di scriverle e di pubblicarle in una bella edizione per gli amici (è in vendita in un’unica libreria al mondo, L’amico ritrovato di via Luccoli a Genova), grazie alla curatela affettuosa e partecipe di Marco Parodi, giovane libraio di una volta.